Carmen D’Antonino – Storica dell’Arte
Finalisti che hanno partecipato alla mostra:
Eleonora Bona, Maria Pia Boscia, Francesca Brivio, Barbara Cappello, Angelo Carmisciano, Umberto Carotenuto, Giuseppina Caserta, Giancarlo Civerra, Laura Francesco, Roberto Franchitti, Manuel Malatesta, Erika Marchi, Ettore Marinelli, Maya Pacifico, Leonardo Pappone, Elisa Rossoni, Monica Sarandrea, Tina Sgrò, Michele Stagni, Keziat Terracciano.
L’evento si è concluso il giorno 2 luglio 2021, con la proclamazione dei vincitori: Tina Sgrò, Elisa Rossoni, Manuel Malatesta.
Per gli artisti premiati tre dei membri della giuria incaricata per la selezione delle opere hanno redatto per ciascuno di loro un testo critico.
La storica dell’arte Gioia Cativa per l’artista Tina Sgrò;
L’architetto, curatrice ed editrice Roberta Melasecca per l’artista Elisa Rossoni;
Il critico d’arte Francesco Mutti per l’artista Manuel Malatesta.
Di seguito le recensioni:
Gioia Cativa per Tina Sgrò:
Tina Sgrò, attraverso il suo lavoro, è riuscita a “raccontare” uno dei momenti più importante dell’opera del Sommo Poeta. Attraverso una pittura quasi rarefatta, colpita da fenditure che ricreano una sensazione di forte tensione, l’artista ha colto un momento di massima emozione. L’ambiente infernale diventa un oceano di emozioni, la rappresentazione ideale di una fase di passaggio cruciale. Ombre che nascondono profonde verità e brutale dolore, uno scorrere del tempo che sembra essere drasticamente rallentato fino alla sua immobilità. In un luogo buio come l’inferno, Sgrò vi fa entrare uno spiraglio di luce forte e deciso che colpisce di netto ed esplode al centro dando vita a uno spazio dove la morte regna sovrana. È un figurativo che si unisce ad elementi aniconici cromatici e il risultato finale è di grande suggestione. Regala un fascino malinconico e rassegnato dove sprazzi di vita pulsante si incontrano con le anime perdute per l’eternità. È il passaggio verso l’abisso, il ponte d’acqua che lega la vita alla morte, la speranza alla disperazione.
L’artista, con grande perizia tecnica e rara sensibilità cromatica, riesce a costruire un mondo che, di per sé, rappresenta la sua ricchezza, la sua forza artistica e umana, raccontando attraverso i pennelli una storia millenaria, patrimonio della nostra cultura.
Francesco Mutti per Manuel Malatesta:
Senza troppo girarci intorno, il primo tra gli aspetti esemplari del lavoro dell’artista isernino è la sua duttilità intellettuale: è cosa pressoché unica rintracciare in mostre organizzate in gallerie private come all’interno di istituzioni pubbliche opere realizzate con tecniche fuori dall’ordinario, tecniche che sappiano scardinare quella cosiddetta “comfort zone” entro cui si consacra lo stile dell’artista più affermato come di quello alle prime armi. Manuel Malatesta procede in questa vincente direzione: e nell’ambito del Premio intitolato a Dante Alighieri per i settecento anni dalla sua scomparsa organizzato dalla Galleria SpazioArte Petrecca di Isernia, decide di affidarsi al monotipo, tecnica incisoria singolare e già di per sé raramente utilizzata da chi lo fa di professione, preferendo a questa soluzioni ben più pittoriche come l’acquaforte o la puntasecca. Il “Cerbero” di Manuel invece, premiato con una menzione d’onore alla rassegna molisana, va controcorrente senza, per questo, andare alla cieca: non sarebbe nelle corde dell’artista considerato il suo percorso e le sue attitudini sebbene sia proprio la sperimentazione una parte fondamentale del processo creativo monotipico.
Tale tecnica ha punti a favore e criticità che si ritrovano tutte nell’opera presentata: ogni lavoro è figlio di un unico procedimento di stampa (dal greco mónos – solo, singolo – e typos – impronta, figura) e ciò significa che, nel caso il risultato finale non fosse soddisfacente, il processo dovrebbe essere ripetuto dalle basi, senza possibilità di deroga; inoltre vi è quella minima componente gestuale, spesso imponderabile e non quantificabile, prossima agli ultimi istanti produttivi e lasciata per molti versi al caso, che ne garantisce genuinità e originalità: eppure, anch’essa è legata a uno studio rigoroso, a una progettazione dettagliata fin nei minimi particolari sia del disegno originale che della materia utilizzata – ed è la parte più nobile, pittorica in senso lato, di un processo creativo che vede l’artefice divenire artigiano e regolare al millesimo i propri strumenti; infine, la più sorprendente delle qualità dell’artista: Manuel, come tutti gli incisori – e come gran parte degli scultori che “fanno” – ragiona al contrario, per parti inverse, in negativo poiché, della matrice iniziale, la calcografia finale ne rappresenta l’esatta specola, in tutte le sue parti. Ciò significa che non vi è quel contatto diretto, serrato e continuo che accompagna il pittore alla sua opera ma, per brevissimi ma significativi istanti, i due loro mondo si separano – e non è detto che, se ciò che si è preparato ha qualità, lo avrà anche il risultato finale, qualsiasi entità possa avere questa “qualità”.
Ecco perché Manuel ci tiene a ricordare che l’arte – e le tecniche – possono sempre rinnovarsi e, con loro, alimentare la crescita anche di coloro che le praticano. Ciò significa sperimentare, provare, cadere e rialzarsi, finché ciò che si vuole raggiungere non sia lì a portata di mano: poi, come scritto, la componente del caso giunge veloce a dire l’ultima parola.
L’utilizzo del monotipo ha sapore antico, originale e inconsueto, oggi (ri)attualizzato attraverso la volontà di provarci: il suo “Cerbero” possiede reminiscenze espressioniste, un gesto poderoso che, a tratti fluido, altri graffiato, si appiana sulla superficie eppure non rifugge l’idea della materia che vuole rappresentare. A metà strada tra figurazione, astrazione e un’interpretazione informale di questa, il bianco e nero è vorticoso, la bestia è terribile eppure appena accennata o intuita o solo pensata: ed è lì, davanti ai nostri occhi, perennemente a guardia di un luogo oscuro a molti interdetto. L’artista ha il pieno controllo di sé e delle sue conoscenze – ma si adatta velocemente a quella libertà oggettuale – cioè garantita dall’oggetto d’arte – che rappresenta la reale freschezza dell’operazione di Malatesta e che coniuga assieme il valore semantico del suo segno e gli aspetti gestuali e formali con cui lo realizza.
Roberta Melasecca per Elisa Rossoni:
Elisa Rossoni interpreta con la sua opera Perché mi scerpi? -grafite su carta bianca- un celebre canto dell’Inferno dantesco nel quale il paesaggio naturalistico si trasforma in paesaggio simbolico. È la selva dei suicidi del canto XIII, rivisitazione medioevale del locus horridus classico: una foresta intricata non segnata da alcun sentiero, costituita da alberi con rami nodosi e contorti, al posto dei frutti spine velenose mentre, in un’atmosfera cupa e sinistra, risuonano le grida delle Arpie. Dante descrive l’indescrivibile: il dato naturalistico diviene allegoria del mondo trascendente e il dato umano è ridotto tragicamente a “parole e sangue”. “Perché mi scerpi? non hai tu spirto di pietade alcuno? Uomini fummo, e or siam fatti sterpi: ben dovrebb’esser la tua man più pia, se state fossimo anime di serpi“. Gli abitanti del secondo girone sono al tempo stesso uomini e piante che non hanno vissuto un armonioso passaggio da uno stato naturale all’altro ma sono condannati ad un eterno contrasto per il quale l’anima rimane incarcerata in un surrogato di corpo che neanche nel giorno del Giudizio Universale verrà restituito.
Elisa Rossoni propone stralci non descrittivi della selva dantesca: lavorando per antitesi, introducendo non presenze e negazioni, definisce immagini simboliche e metaforiche di un paesaggio innaturale. La scelta di non utilizzare il colore, di rappresentare il contorto, lo spezzato con la sola grafite e di non inserire nella scena altri personaggi se non i metamorfismi animati accentua il linguaggio disumanizzato che permea nei versi del canto, materializzando invece ogni singolo elemento attraverso la loro assenza. I suicidi, sradicati volontariamente dalla vita, si ritrovano, così, per la legge del contrappasso, forzatamente radicati a terra in una metampsicosi vegetale che l’artista rende stridula e agghiacciante con la sola forza del segno. Le visioni, dell’insieme e dei dettagli, della selva orrida sono, inoltre, mediate dallo spazio bianco di transizione quasi a voler generare un passaggio di pausa nella straziata condizione di vegetali che afferma definitamente la realtà eterna di separazione tra uomo e Dio. L’artista, con minuzie di particolari, genera fisionomie dolorose che mantengono solo una parvenza di naturalità e che, mute, compiono la drammaticità della loro narrazione.
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