CONFINI ANICONICI // Mostra d’Arte Contemporanea della Grande Scuola Isernia

 

La ricerca materica è alla base di ciò che muove la produzione di Beltrante, un mestiere che inizia dalla ricerca della linea, dallo studio del suo segno e della sua forma, per poi virare verso la sperimentazione materica. Parte dall’assunto che la materia è energia, la contiene e la esprime sia con il segno che il colore sviluppando l’interessante formula ENERGIA = COLORE + FORMA. Utilizza il segno nero sia come separazione che come perimetro che racchiude dentro di sé l’energia: sono quelle che Beltrante chiama linee di forza. Se si osserva la prima produzione non ci si può esimere da un confronto con l’arte futurista: se quest’ultima usava la linea per esprimere dinamismo e velocità, Beltrante la usa per raffigurare l’energia. Tutto ciò viene creato unendo anche una sapiente ricerca materica; la superficie viene lavorata con la sabbia per donare un’apparente grossolanità al colore nel momento in cui viene applicato: l’effetto è un colore pieno, vivo, che si armonizza perfettamente con il circostante, dando quasi la sensazione che qualcosa stia uscendo dal supporto, una sorta di illusione ottica tridimensionale. I lavori esposti presentano questi strabilianti risultati armonici, ma mostrano anche la sperimentazione in atto con il cemento, che regala una superficie meno ruvida ma comunque piena; inoltre, il cemento è unito al colore stesso, come in Energia Terra, creando delle tonalità pastello estremamente delicate e sfumate. Beltrante è alla ricerca delle enormi potenzialità che i materiali da costruzione offrono e li unisce alla ricerca figurativa che destruttura le figure attraverso l’uso sapiente di forme e colore. La cosa che colpisce nei suoi lavori è che, nonostante l’utilizzo di linee di forza che tagliano la tela, riesce straordinariamente a mantenere l’integrità delle forme: ne risultano immagini oniriche ed i segni e figure spiralizzate rimandano al mondo infantile di Joan Mirò, un mondo di idee senza forma reale ma comunque rappresentabili.

«…se mi vedesse Mondrian….si rivolterebbe nella tomba!». Questo deve aver pensato Rino Capone davanti al suo lavoro Se mi vedesse Mondrian, che rappresenta e stravolge, allo stesso tempo, il grande lavoro del maestro olandese. È da qui che nasce il titolo ironico di una delle opere presentate. È fuor di dubbio che Mondrian sia di grande ispirazione per Capone: un artista immenso che ha destrutturato completamente la figura riducendola ad una semplice intersezione di linee orizzontali e verticali, riempite dei colori primari. Cosa c’è di più essenziale di così? È con questo astrattismo assoluto che Capone ha trovato la sua chiave di lettura, il modo attraverso il quale trattare tematiche per lui fondamentali, come l’era tecnologica, la sessualità, la vita etc.; temi trattati con occhio critico e cosciente attraverso uno spazialismo ragionato e calcolato, ricercando la perfezione con l’ausilio di una stesura cromatica ampia e compatta, colori pieni e luminosi che rispecchiano un lungo lavoro di sperimentazione. L’arte di Capone sembra acquistare una componente ludica in un gioco di forme e colori che sembrano sfociare in una caos assoluto. La sua produzione, come si può vedere in “Io e Mondrian” è anche una chiara provocazione, dato l’utilizzo di linee curve e diagonali, assenti nei lavori dello stesso Mondrian: è l’ispirazione che poi viene trasformata in una personale visione, simile ma diversa allo stesso tempo. Assistiamo ad un simbolismo continuo che copre l’intera tela. La nascita della vita in “L’alfabeto della vita” e l’opera “Città in jazz” rappresentano due tematiche fondamentali: il ciclo della vita che si ripete ciclicamente in un’esplosione chimica che solo l’essere umano è in grado di generare e la città del futuro, veloce, dinamica ed ipertecnologica, dove l’uomo viene sempre più controllato da una tecnologia in continuo sviluppo, imprigionato in una maglia di telecomunicazioni quasi come una preda in una ragnatela, sempre più vicino a vivere in una società preannunciata nel capolavoro di George Orwell “1984”.

Un ritorno alle forme primordiali caratterizza la produzione di Cosmo di Florio, una ricerca semantica basata su forme neutre che, di volta in volta, si ricollocano contestualmente nell’immaginario ideato dall’artista. La sapiente capacità manuale permette a Di Florio di plasmare il materiale (polistirolo e gesso) come se fosse malleabile e pronto ad essere trasformato in altro; la totale assenza cromatica permette di vedere la purezza delle forme lontane da qualunque contaminazione, figure eteree che sembrano aleggiare nello spazio in una totale assenza di gravità. Il materiale viene plasmato in forme la cui liricità è data dal loro allungarsi verso lo spazio indefinito con estrema eleganza e gusto. Quest’ultimo non subisce alterazioni ma “accoglie” questi lavori come propri; sono forme dai volumi arrotondati, tagliati e lavorati per ottenere un prodotto finale di pregevole fattura. Come possiamo notare sia in “ Gli Amanti” che in “La Gestante”, le figure si avvicinano molto alle forme primitive, che nella loro indefinitezza creano un’armonica visione e permettono di accarezzare con l’occhio ogni centimetro della superficie: le aperture, gli spazi vuoti sono le parti più ricercate, vuoti che sembrano grembi pronti ad ospitare una nuova vita. È la vita il filo conduttore delle opere esposte, rappresentato attraverso le ossa come metafora dell’esistenza stessa. Le ossa sono, realmente e metaforicamente, i perni che sorreggono il corpo, sono lo sviluppo di una vita che si evolve, quella parte della natura con cui ci confrontiamo ogni giorno. Per Di Florio rappresentano vita ma anche morte, fine di un’esistenza, la chiusura del cerchio (vd. La Gabbia). È possibile percepire una dicotomia tra oggetto reale e immaginato: le ossa hanno un loro peso specifico, ma nella realizzazione diventano prive di ogni pesantezza: è il “paradosso” tra la leggiadria e la grossolanità del materiale che Di Florio riesce e risolvere egregiamente dando respiro alle sue sculture.

La visione artistica di Iovino è un’insieme di sperimentazione ed autoanalisi, partendo da una puntuale critica verso il mercato dell’arte attuale: secondo l’artista l’arte si è frammentata nelle sue molteplici espressioni, si è concretamente mercificata dando valore al lato meramente economico sacrificando, talvolta, l’enorme potenziale di talentuosi artisti. L’arte in potenziale è quella che interessa a Iovino, un’arte che ritrovi sé stessa e non ne diventi la sua brutta copia. I lavori esposti rappresentano il percorso mentale e linguistico sperimentato dall’artista, una ricerca materica che chiede di purificare ciò che è stato contaminato. Un’essenzialità di forme e colori che anelano a mostrare l’arte nella sua essenza e complessa semplicità; siamo davanti ad un’arte che si propone interattiva nella sua pseudotridimensionalità, e “dialettica” dal punto di vista materico. Una ricerca monocromatica che vede le “estremità” protrarsi verso l’esterno, quelle periferie (i titoli delle opere sono, per questo, esplicativi) in cui si possono riconoscere quartieri, stati d’animo nascosti, l’estremizzazione di qualcosa che possiede un’identità. Iovino nel minimalismo delle forme racconta la sua “arte dialogante” che permette di rompere quel muro che divide l’arte dal suo fruitore, volge verso quella sinergia che si crea dalla loro unione, chiedendo con forza una qualunque forma di riflessione per non dover scoprire, poi, un’arte unicamente fine a sé stessa. È l’essenzialità delle forme proposte a rilanciare una nuova forma di comunicazione, oggetti che si “propongono” e sono stimolatori delle più diverse sensazioni: è un tipo di MADI rivisitato in chiave chiaramente minimalista, che comunica attraverso linee e superfici in una semplicità che chiede di essere riempita dalle emozioni e dalle reazioni di chi sosta davanti, quasi in un’interazione di tipo eventualistico e dando nuova voce alla materia.

Se oggi parliamo di MADI (vd. Materialismo dialettico) in Molise con i suoi giovani rappresentanti, non ci si può esimere da un ritorno negli anni ’60, quando un giovane Nazzareno Serricchio intuì l’enorme potenziale espressivo della materia come “dialogo” con l’osservatore. E’ chiaro che aveva recepito in modo pieno l’intenzione alla base del primo MADI, nato a Buenos Aires nel 1946: l’arte è comunicazione in chiave metaforica anche attraverso la dura materia, crea qualcosa di riconoscibile con colori e forme dando vita ad un linguaggio condiviso. Serricchio nei suoi lavori va alla ricerca della forma pura unita alla ricerca geometrica: il suo è un investigare la superficie dell’opera in perenne costruzione, mentre l’astrattismo regala la forma concreta. Per quanto riguarda l’arte plastica, invece, si ha la dimostrazione di come materiali duri diventino elastici ed armoniosi e facili da dominare; l’artista evidenzia il suo voler stimolare i sensi attraverso un attento gusto policromatico e la capacità di “provocare” emozioni, esercitando così con un’interazione con chi osserva, come in “Dialogante primo”. Il rigore, la linearità, le linee sono gli elementi “grammaticali” tramite i quali Serricchio crea la sua “scrittura”, un dialogo visivo e tangibile che possiamo toccare con mano, figlia di una poetica informale da tempo ricercata e studiata per dare valore estetico anche a materiali poveri. Eccellente è anche il senso spaziale delle sculture che sembrano piegarsi e resistere alla forza di gravità; questo “movimento” crea sapienti effetti luministici e chiude, da una parte, la ricerca fiabesca dell’artista, mentre dall’altra ne descrive le scelte scultoree legate al territorio, sia per la semplicità che per la complessità elegantemente espressa.

E’ una nuova fase di ricerca pittorica quella di Tramontano, dove il colore è protagonista assoluto; è chiara l’ispirazione al maestro tedesco Gerhard Richter ed ai suoi studi cromatici. Quest’ultimo ha “esibito” un’arte in bilico fra illusione e realtà, facendone il suo marchio con risultati straordinariamente lirici, lontani da ogni forma ideologica e di definizione sulla sua arte. L’analisi del colore, proposta da Richter porta ad una paziente ricerca della forma celata nel colore stesso, ottenendo così uno sfolgorio luminoso, lo stesso cangiantismo cromatico che si nota negli ultimi lavori di Tramontano. In questi viene manifestata una realtà inafferrabile, derivante da una tensione emotiva scaturita dal groviglio cromatico imprigionato sulla tela. Se in Richter il colore incide la superficie e sembra attraversarla come un solco indelebile, Tramontano, invece, fa una ricerca linguistica più delicata, ma non meno decisa: si crea un vortice cromatico deliziato da una “nebulosa” che sembra abbracciare ogni centimetro della tela, determinando una sensazione onirica e, dunque, fugace. Una realtà-sogno che preme sulla potenza evocativa del colore e sulle forze che da esso si scatenano. Ne deriva uno studio sul colore puntuale e ragionato, l’accostamento tra colori caldi e freddi che creano punti di alta tensione, facendo vibrare il piano della superficie: è l’armonia degli opposti che spinge l’artista verso questa ricerca, una nota impressionista per definire la forza generatrice del colore sulla forma stessa.