P.A.C.I. 2020-21 PREMIO AUDITORIUM CITTÀ D’ISERNIA 8^ EDIZIONE

NOTE ALLE IMMAGINI DELLA GALLERIA

* Questa composizione di grande pregio e dimensione, realizzata su formelle di terracotta a base quadrata, è probabilmente il risultato di un lavoro di sintesi durato molto tempo e costato all’artista molta fatica. La fisionomia delle figure è la stessa di altri altorielievi rinvenuti nel laboratorio e pure la stessa di alcune delle incisioni. Padula rappresenta figure librate nello spazio che, dall’alto verso il basso (l’immagine è coricata per ottimizzarne le dimensioni con quelle dell’impaginato) si alternano con cadenza sincopata e alternata, e disegnano nello spazio una danza che è quella dalla quale ha origine la vita.

**Padula è molto legato al tema del Santo di Assisi, che rappresenta in diverse episodi salienti, come in questo momento in cui San Francesco, in ginocchio, si abbandona in atteggiamento confessionale. L’artista ricorre alla iconografia del Santo, per fare suoi gli insegnamenti di una vita fondata sui principi della semplicità e della bellezza naturale.

***L’amore per la tradizione, per il gusto classico e la profonda conoscenza della storia, si manifestano in questa opera di chiara matrice medievale/rinascimentale. Tracce evidenti ne sono infatti: la croce polilobata impostata sul modulo quadrato e l’usanza di istoriare i lobi con i momenti capitali della vita di Cristo. Padula ne rappresenta con limpida sintesi la Nascita, l’Esodo, l’Epifania, l’Evangelizzazione, la Crocefissione, la Deposizione.

****Diversi i progetti iniziati e non finiti ritrovati nella produzione di Padula. Difficile  immaginare come mai egli decise di  non completarli mai. Esistono dei momenti in cui l’artista raggiunge l’acme dell’intensità e della concentrazione, e che segnano dei punti di “non-ritorno”. Tanto è massimo il trasporto di quel momento che risulta impossibile ritrovarlo il giorno dopo. E allora è preferibile lasciare le cose al loro posto, né aggiungere né sottrarre, per rivivere la vertigine di quei pochi battitti di estrema tensione.

*****I disegni in tecnica mista rappresentano il substrato di decodifica dell’arte di Padula, la filigrana rintracciabile nella sua intera produzione. Migliore sintesi di tutte le sue influenze culturali, in essi convergono lo spartito classico, la sintassi proto-cubista ancora di matrice cezanniana e post-impressionista, gli elementi metafisici delle nature morte.

******Gli acquerelli delle prossime pagine, sono quelli del campionario, ritrovato nello studio di casa di Padula. Si tratta di oltre cento disegni dalle dimensioni di 17,5 x 25 cm che abbracciano le nature morte, gli scorci e i dettagli architettonici. Padula non datava le proprie opere; è quindi difficile risalire alla data certa di realizzazione. Tuttavia, i disegni posseggono un disarmante potere di attualità.

*******Le incisioni per Padula rappresentano l’avamposto della sua produzione. Sebbene, infatti, negli altri ambiti da lui esplorati permanga l’impostazione classica in modo evidente, è forse nelle incisioni che si avverte meglio il bisogno dell’artista di emanciparsi da certi schemi, magari per ritornarvi e per inverarli secondo diverse epifanie. Singolari per esempio, sono le incisioni in cui Padula, esperisce la tecnica della “sottrazione”, dove antepone alle stesse figure di quella danza vitale, non più il fondo “pieno” della terra o del sole, ma un etereo quasi astratto filamento sinapsi-forme, ancora una volta simbolo di legame con i valori assoluti dell’esistenza.

********Verso la metà degli anni ‘70, insieme ai colleghi docenti Cosmo Di Florio e Francesco Basile, anche loro artisti, Padula fonda “Studio Esse”. Il richiamo alla lettera “esse” sta verosimilmente per serigrafia, sebbene facessero per lo più uso della tecnica della stampa su stoffa, di cui Basile era esperto conoscitore. Sono questi gli anni di una prolifica produzione di stampe, nelle quali Padula, fa convergere, però, solo alcuni dei suoi stereotipi, come il nudo, le ballerine e le scene equestri. Una scelta legata alla vocazione “commerciale” che i tre artisti decisero di imprimere allo studio, cosa che quindi richiedeva una selezione più “appetibile” dei modelli. Nonostante la loro natura di valore decisamente più estetico che esplorativo, le serigrafie presentano degli aspetti interessanti. Le campiture piene e sgargianti, le prospettive quasi assonometriche, i contorni imprecisi, le pose maliconiche e immote tipiche di Padula, confermano una certa sensibilità dell’artista per le tematiche della metafisica, con sorprendenti cenni allafumettistica e all’art pop.

crocifissione | gesso | 80 x 60 cm

composizione | tecnica mista su carta | 24 x 33 cm

senza titolo | tecnica mista su carta | 20 x 39,5 cm

Nicola Padula

(Isernia 1939- Isernia 2005) Compie gli studi artistici presso il Magistero artistico di Napoli. Nel 1957 partecipa ad una mostra di giovani artisti a Palermo iniziando così una carriera lunga e costellata di riconoscimenti e soddisfazioni. Nel 1959 espone alla prima rassegna artistica dei giovani artisti molisani. Parallelamente all’attività didattica Nicola Padula ha svolto un’intensa attività artistica nei campi della ceramica, pittura, scultura, grafica ed incisione. La sua produzione si racchiude in un vastissimo elenco che testimonia un lavoro fiorente e ricco di idee e notevoli capacità. Ha preso parte a moltissimi eventi, collettive e manifestazioni attinenti all’ambito artistico, attraverso i quali ha mostrato la sua ricerca e quella manualità che può essere solo un dono; tra gli eventi e i luoghi più significativi ai quali e nei quali ha fatto conoscere la sua arte oltre a quelli sopracitati ricordiamo: le opere per strutture pubbliche in Isernia (1961); Monaco di Baviera, Caravella d’oro al Premio Francesco Galante Civera (1968); Tolentino (1969); una croce istoriata ispirata alla vita di Cristo in Isernia (1972); Barletta (1978); Isernia (1979); Termoli (1980); Isernia, Cerro al Volturno, Macchia d’Isernia (1989); Guardalfiera, Agnone, Macchia d’Isernia, Roma (1992); medaglia dedicata a San Pietro Celestino in Isernia (1994); Macchia d’Isernia (1995); Filignano, Isernia, Macchia d’Isernia (2000); Macchia d’Isernia, Cerreto Sanita (2001). L’arte di Padula si colloca nel filone figurativo della scultura italiana, dagli anni Sessanta ai nostri giorni, con il compito storico di continuare e riconfermare la validità di una tradizione culturale assai lontana di sculture, di memorie classiche ed italiche. Di lui hanno parlato Violante, E.Mercuri, C.Benincasa, Mastropaolo, G.B.Faralli, G. Berchicci, C.Savini, L.Strozzieri.

 IL RITORNO ALLA TERRA | di Antonio Pallotta | Presidente dell’associazione 
Un approccio silenzioso ma profondamente colto quello di Nicola Padula. Artista completo e proteiforme dalle sorprendenti “sfaccettature”. Termine certamente appropriato vista la sua opera scultorea che modella da abile maestro e conoscitore. Padula appartiene al milieu dei rappresentanti della grande Scuola Isernina, e la sua opera va ascritta alla stagione artistica forse migliore, che l’intera provincia abbia conosciuto. Padula infatti respira gli anni del fermento culturale della cui promozione è quartier generale lo storico Istituto d’Arte Manuppella di Isernia, vera fucina di talenti e artisti e di cui il maestro è decisamente uno dei più egregi rappresentanti. Nella decisione di imprimere una direzione alla ricerca d’avanguardia, l’arte di Padula gioca un ruolo decisivo. Egli infatti guarda con sospetto ai surrogati dell’arte che dai centri maggiori giungono nei centri della provincia, e si presentano come nuove frontiere da sperimentare. Consapevole forse del ritardo con le quali tali spinte vengono recepite nei centri remoti, Padula contrappone, alla tendenza maggioritaria, un rinnovato gusto per l’arte classica, evitando in questo modo la deriva della discussione critica verso atteggiamenti solo alla moda. Ciò non significa che nella ricerca di Padula siano assenti elementi di novità. La sua è sempre una risposta di misurato equilibrio, il cui fine non è certamente quello di apparire à la page, ma che va rinvenuto piuttosto nella attuazione dialettica del visibile con l’idea. Ispirato dall’amore per il bello dei modelli classici, la sua arte appare iperuranica, arte di riflessione e contemplazione. Ma non è arte di semplice mimesis, è anche arte di superamento e trascendenza metafisica. È attraverso la poetica del frammento, del reperto archeologico, dello spirito del ritrovamento che l’artista infrange i costrutti della rappresentazione solo imitativa, spostando l’attenzione sul corpo lacerto, incompiuto e non finito. Padula fonda paradossalmente la sua personale visione olistica sul frammento. Una visione del mondo per piccoli parti, quasi atomostica e monadica. Queste monadi sono i veri atomi della natura, e in una parola, gli elementi delle cose. [dal libro della Monadologia di G.W.Leibniz]. È questo un problema di impostazione ancora molto classica, riconducibile alla concezione che Cézanne aveva della sua opera. Egli voleva veicolare una “petit sensation” la quale era il frutto della fusione dell’oggetto o visione naturale, con l’idea interiore trascendentale dell’io consapevole. Doppia polarità di presenza-assenza, pieno-vuoto, idea-corpo, gravità-levità, che colloca l’opera di Padula nella dimensione di Mnemosine dove si esplica la metafora e lo spostamento. Il ricordo è sospensione. La postura raccolta infonde il fascino malinconico di chi nel passato ritrova i valori perduti del presente. Valori la cui natura appartiene alla terra, al suo colore e alla sua consistenza. Valori archetipi di antica società precolombiana, le stessa dalla quale sembra provenire “l’indigeno metafisico” dalle fattezze fisionomiche degli aborigeni. Opere liberate da ansie ostensive, di profonda erudizione, di legame con la Storia, che ci radicano in un tempo specifico, in una geografia topica. La sospensione ascetica che avvolge gli sguardi di Padula, non è la stessa di una deserta piazza di periferia disegnata da ombre marcate o spartani portici. L’indagine si concentra sui “corpi” e sui rapporti interni che Padula sembra voler lasciare allo stato di energia vibrante. Nelle sculture la realtà si sospende in un tempo immemorabile. Realtà scevra da orpelli e ridondanti particolari. Arte dell’epurazione dalle sovrastrutture concettuali e cervellotiche di molta sedicente arte d’avanguardia. Malinconica nostalgia del tempo perduto. Abluzione da qualsiasi cosa possa distogliere la contemplazione della forma, ottenuta sempre per dialettica mutuazione del cuore con la mente, e modellata con la gravità di una carezza. Padula cerca il silenzio, la calma. Lo fa invocando la piccola dimensione nella quale però si celano aneliti di religiosità, di serafica attesa, di sacralità e preghiera. Quasi come degli “idoli aborigeni”, le statuette richiamano anche alla semplicità della natura, ai valori atavici della terra. Se le fattezze somatiche, i pigmenti colorati, le patine dorate, richiamano al sapore dell’autentico e del vero, le pose e le posture conservano la matrice rinascimentale, classica e metafisica, dell’amore per il bello canonico, della visione introspettiva e cogitabonda. Idoli la cui simbologia si permea del mito della donna e del femmineo e quindi ancora della bellezza, dell’origine, dell’amante e della genitrice, della prosperità e della fertilità. Tematica centrale dell’opera di Padula è anche la nudità. Mai provocatrice o esuberante, sempre timida e nascosta, in molti casi introversa, quasi a proteggere la dignità o il pudore. È una nudità di un corpo innocente non ancora colpito dal peccato originale, una silhouette senza nessuna vanità. Da dove proviene allora tanta seppure affascinante malinconia? C’è un testo nascosto nelle opere di Padula, del non detto. È ciò è immediatamente evidente nella pratica del non-finito, processo ispiratore al quale sottopone l’intera sua produzione, e che lo spinge verso la ricerca del “qualcos’altro”. È forse una urgenza espressiva o forse la consapevolezza che non molto lontano è il momento del peccato e della espiazione dell’uomo. La poetica del ri-torno non è infatti pacificata. Il ritorno alla bellezza e alla giusta misura è evidentemente causale alla sua assenza. Se quindi, da un lato si manifesta la necessità del ritorno dei valori autentici, dall’altro si comprende la consapevolezza, che questo sarà possibile soltanto dopo la loro estinzione. Per questo vedo nell’arte di Padula, un arte della vigilia, dell’alterità, del momento prima, del preludio. Mai un segno finito, una rappresentazione pura. Non una saturazione degli spazi, ma opposizione della scoperta e dell’immaginazione alla totalizzante presenza. La marca del non-finito che prelude all’alterità delle cose, è un leitmotiv nell’opera di Padula. Si ritrova con vigore nella sgorbiata incerta impressa alla terracotta; nella pennellata post-impressionista di matrice proto-cubista delle pitture; negli scorci e nelle nature morte tratteggiati ad acquerello; nelle incisioni nebbiose nelle quali il tratto si fa più nervoso ma intensamente vibrante. Nel chiaro-scuro e nella luce, che penetra nelle pieghe profonde, soprattutto degli altorilievi, oscurando la resa realistica, la quale resta subordinata al momento espressivo. Padula non ostenta virtuosismi ma vellutate carezze, riuscendo a raggiungere gli stessi alti risultati di lirismo, vertigine, ritmo, plasticità; senza rinunciare alla sua personale cifra esistenziale che rimane per la tutta le vita silenziosa. Perché quella di Padula non è mai solo e semplicemente arte della mimesi ma sempre una personalissima sintesi. Meno importante nella poetica del ritorno è anche la scelta del soggetto, che infatti cede il posto in favore del metodo. La somiglianza delle sculture, il ricco campionario degli acquerelli, la riproduzione dei modelli, attestano l’importanza di una ricerca che attraverso il medium utilizzato esprime il proprio quid. Le opere di Padula non sono mai degli ex-tempore, ma sono sempre il frutto di un’attenta analisi preliminare che egli sviscera attraverso disegni, acquerelli, bozze. Padula recepisce certamente la lezione di Michelangelo, Cézanne, Derain, Morandi. Il tocco di memoria (post) impressionista; le pennellate e i tratti ordinati, direzionati e scanditi; la riduzione elementare dell’oggetto naturale in volumi semplici, soprattutto negli scorci e nei paesaggi, dove la componente volumetrica, tridimensionale, prevale sulla restituzione leziosa; la predilezione per i toni caldi; la corporatura solida e massiccia delle figure; l’atteggiamento placido, pacato, a volte pigro delle sue sculture; denunciano il grado di conoscenza profonda, che Padula aveva dei sui riferimenti elettivi. Con la produzione di terracotta, Padula esplora tre tematiche principali oltre a quelle del nudo e del tema sacro: il tema agreste. Non è un caso che di nuovo si faccia riferimento alla terra attraverso l’uso della terracotta. Dalla Terra alla Terra quindi. I bassorilievi delle scene campestri e rurali, sono ancora una volta un evidente richiamo alla necessità di purificazione di cui l’uomo risente, e alla quale può aspirare soltanto attraverso un sincero ritorno alla semplicità delle cose naturali. Ad innescare il profondo legame che Padula conserva con una più ortodossa impostazione è il disegno che non abbandona mai. Irrimediabile strumento di lavoro, indispensabile soprattutto nella parte preparatoria dei bozzetti, si manifesta in tutta la sua ineluttabile necessità anche come ordito intellegibile, al quale l’artista affida la precisa funzione di rendere decifrabile il testo pitto-scultoreo. Padula non è permeato dall’ansia di nascondere segreti, simbolismi esotici o geroglifici criptici e incomprensibili. La sua è un arte confidenziale dalla bellezza dell’adesso, della natura ri-trovata, ri-scoperta, ri-tornata all’essenza. Un‘arte il cui risultato ricerca con studiata pazienza un minuzioso lavoro di cucitura fra l’idea e la cosa. Del gruppo degli artisti della grande scuola Isernina, è quello che forse più di tutti aderisce all’appello del “ritorno all’ordine”. Padula rimane infatti, con le dovute riserve ed eccezioni, un fautore del vero naturale, ma con abilità riesce a non scivolare mai nella retorica conformista. Un artista per tutta la vita fedele alle sue intuizioni. “Ritorno alla Terra” è la mostra antologia dedicata al Maestro Nicola Padula, che la famiglia gli ha voluto tributare, in occasione del decennale della sua morte. È una mostra che fa specchiato riferimento alla terracotta e al fatto che il lavoro di Padula è un ricominciamento dalla terra intesa anche come grado zero, momento di epurazione dalle elucubrazioni di tipo informale, astratto, geometrico, concettuale che lui in qualche misura rifiutava. Dalla terra rinasce quindi l’amore per il bello, l’amore per il disegno, l’amore per il femmineo, l’amore per il classico. V’è poi il ritorno metaforico dell’artista che sopravvivendo nella sua opera, “ritorna sulla terra”.

NICOLA PADULA: UNA VITA VERA | di Gioia Cativa | Critico d’arte dell’associazione
“Io non condivido le tue idee, ma lotterò fino alla morte perché tu possa avere la libertà di esprimerle”. [Voltaire]
Nel tentativo di approfondire l’espressione artistica di Nicola Padula, scultore e pittore, ma soprattutto uomo profondo e meditativo, mi sono imbattuta in questa citazione, annotata su uno dei tanti fogli sparsi sui quali l’artista riportava attimi, schizzi veloci e segni indicatori della sua vulcanica creatività. Traslo le parole di Voltaire all’arte concepita nella mente di Padula, e ciò che vedo è un artista legato alla tradizione, cresciuto nella scuola classicista dell’arte, legato al rigore e alla forza delle forme ed innamorato della scultura, vissuta come mezzo per esprimere la potenza e la profondità in senso figurato. Un’arte forse troppo tradizionale in un XXI secolo che ha vissuto l’invasione delle avanguardie, ha percepito la disgregazione del bello e toccato con mano un’arte nuova e decisamente incomprensibile, se letta attraverso i vecchi schemi. Decisamente lontana dal mondo di Padula, estranea in modo assoluto alla sua visione e priva molto spesso di qualunque forma tecnica, creata con lo scopo di innescare elucubrazioni mentali da far sembrare banali anche i più machiavellici pensieri. Ecco, pur non condividendo appieno l’avvento di questa nuova era, Padula, fino agli ultimi giorni della sua vita, circondato dagli affetti più cari, ha portato avanti la sua “sperimentazione”, perché così la voglio definire, poiché in un momento avanguardista ha voluto mostrare quanto la classicità possa essere moderna e non tramontare mai, come può ancora affascinare rappresentando corpi, volti, scene, idee, senza cercare la spettacolarizzazione; ha cercato la meraviglia nella semplicità, ha voluto che si riscoprisse ciò che si stava perdendo, che la tradizione tornasse per non scomparire. Nicola Padula si presenta come un artista poliedrico, creativo, una sorta di Re Mida che riesce a lavorare con eccellenti risultati diversi materiali, usando le più svariate tecniche. Principalmente, è la scultura il mondo nel quale Padula riesce ad esternare le sue indubbie qualità di artista; i suoi lavori sono il risultato di una ricerca improntata alla scoperta della fisicità, e di quella componente emozionale che emerge dalle linee e da quegli sguardi pieni di un qualcosa: la riproduzione del corpo ha sempre comportato non poche difficoltà, poiché caratterizzato da varie forme, proporzioni ed atteggiamenti, ma soprattutto rispecchiante l’epoca in cui viene creato. Osservando la scultura di Padula sono due le considerazioni da fare: lo studio del corpo femminile e la ricerca di un rigore plastico, di stampo medievale, unito ad una componente emozionale ed espressiva di matrice michelangiolesca. Padula aspira alla ricerca di un equilibrio, a trasmettere plasticità e vita al tempo stesso. è come trovarsi davanti a delle figure ascetiche, che nella loro semplicità sembrano essere delle impronte di un cammino di conoscenza, che Padula ha voluto percorrere su se stesso e su quella capacità che gli hanno permesso di spaziare. La femminilità sembra essere un tema dominante, voluto, cercato, approfondito, una ricerca emotiva e plastica volta alla scoperta della donna e della sua relazione con il mondo, in una sorta di dialogo silenzioso tra gli accenti del corpo e la profondità della meditazione. Le donne di Padula, rappresentate sia in altorilievo che a tutto tondo, evocano una semplicità disarmante, dalla quale scaturisce una flessuosità nel movimento immaginario che l’osservatore si trova a percepire. Sin dalla fine degli anni ‘50, l’artista dedica alla scultura in terracotta tutta l’attenzione e lo sforzo che essa merita. In alcune statuine a tutto tondo, quei corpi femminili ricordano vagamente le posizioni e gli sguardi dei personaggi che hanno popolato il periodo rosa di Picasso: se, però, quest’ultimo voleva evidenziare l’aspetto sdolcinato, ingenuo ed anche un po’ infantile dell’essere umano, enfatizzandolo anche grazie ad una tavolozza più rischiarata, Padula invece ne evidenzia le debolezze, non per derisione, ma per mostrare come forza e fragilità possano convivere in corpi così minuti, ma capaci di creare vita. Le donne paduliane, dunque, sono il più alto esempio di contraddizione capace di elevarsi quasi alla venerazione da parte dell’artista, che tenta di estrarre, plasmare e mostrare una femminilità avulsa dalla malizia; corpi inconsapevoli di possedere una carica erotica, un’innocenza che trapela dalla profondità di uno sguardo immobile. Già, lo sguardo: occhi che sembrano persi lungo un orizzonte immaginario, che oltrepassano l’osservatore per guardare lontano; sono sguardi chiusi, princìpi evocatori di un’introspezione voluta e cercata, attimi di riflessione, di razionalità, che fanno dell’essere umano la creatura che è. Occhi silenziosi che fanno rumore nell’anima, che vogliono essere aperti dalla saggezza dell’uomo, dalla luce di Dio che guida quest’ultimo nel suo cammino. Profonda è la radice religiosa che conduce Padula lungo la sua vita, nel rispetto della morale e degli altri, un uomo d’altri tempi che dell’arte ha fatto la sua essenza e che della tradizione ha fatto il suo paradigma, ricercando la maestosità del classico unito ad un’essenza che oserei definire metafisica. Oltre la sinuosità corporea, ad un’ostentazione pudica della femminilità, ad un richiamo ai maestri dell’arte italiana, è chiaro che Padula ha saputo cogliere la prorompente forza espressiva di Michelangelo e riproporla nei suoi lavori, trovando in essa la giusta introspezione. Tra i suoi documenti, infatti, sono state trovate immagini delle opere di Michelangelo, quali la “Pietà”; in particolare, lo sguardo malinconico e doloroso della Vergine che caratterizza la “Pietà”, si ritrova negli sguardi di questi nudi femminili che affollano il mondo dell’artista. La donna è dunque vista come generatrice di vita, un simbolismo che trapela dalle forme, dalle pose e da quei capelli lunghi che sono una costante e che sottolineano quell’ideale femminile che Padula cerca di ritrovare plasmando l’argilla. Posizioni fetali sono piuttosto presenti, quasi a simboleggiare la ciclicità della vita, ma anche la sua stessa nascita, come il feto che, raggomitolato su se stesso, cresce e si nutre fino alla nascita. Una posizione di protezione che, oltre a sottolineare la forza della donna, ne accentua anche la vulnerabilità come essere umano, la donna come sede di cuore e ragione, che vive e si emoziona della vita. Ma, come già accennato, anche la religiosità è una colonna della sfera emotiva ed umana di Padula. Scene religiose dimostrano la devozione all’Altissimo e, più che in altri esempi fin qui trattati, mostrano chiari richiami al rigore plastico medievale, come nella forza che emerge attraverso le quattordici stazioni che compongono la Via Crucis. Ampi gesti, forme solide e rigorose, raccontano la “grammatica” scultorea di cui Padula si serve, giochi chiaroscurali cercati attraverso la patinatura dorata, che non solo regala preziosità, ma anche una profondità che sembra donare maggiore ampiezza alle figure. L’artista non lavora solo su spazio e forma, ma anche, come già detto, sulla componente espressiva, attraverso una “semplicità plastica” che permette a chi osserva di cogliere ogni dettaglio, quasi come fossimo in un’illusione ottica, ove si ha la sensazione che queste forme plastiche si dilatino, sembrando più imponenti. Non va dimenticato, però, che anche la figura maschile, seppur in modo sporadico, compare nelle sue produzioni, ma non dobbiamo fare l’errore di considerare l’uomo come un semplice comprimario, ma nella sua centellinata presenza si coglie tutta la grandezza dell’amore e della vita e che sigla la sua fedele presenza, la sua capacità di essere di aiuto nell’affrontare le difficoltà che una vita insieme comporta. Come già anticipato, la creatività tematica di Padula non conosce ostacoli. Sin dall’inizio della sua carriera ha spaziato sia tematicamente che tecnicamente, riuscendo a raggiungere risultati di grande qualità. Ha sperimentato la tecnica delle stampa attraverso l’acquaforte, ponendo in luce le grandi potenzialità espressive e chiaroscurali che tale metodo permette. Anche qui la figura femminile ha un ruolo da protagonista, ma sembra che lo spazio circostante diventi qualcosa di etereo ed indefinito, una sorta di magma incolore privo di peso specifico nel quale il corpo fluttua, sembra perdere peso ed errare nell’indeterminato. È un momento importante che segna quel legame che nella sua sottigliezza unisce la tradizione classica ad una spiritualità a volte così laica da sembrare metafisica, dove l’irrealtà è realtà e l’uomo vi si immerge. Non si può suddividere il lavoro di Padula per periodi, perchè lui è sempre tornato indietro e poi di nuovo avanti per ritornare ancora indietro, a dimostrazione di una ricerca che non ha mai conosciuto arresti e dove il punto di riferimento è stato il suo istinto. L’arte di Padula è una valvola di sfogo, un mezzo di comunicazione forte ed immediato al pari delle parole; la sua arte è una poesia di immagini che dalla scultura si sposta sulla bidimensionalità della tela e si immerge nelle pennellate attraverso quegli oggetti e figure che finiscono di riempire quel mondo immaginario da cui l’artista trae ispirazione, un mondo ideale dove l’arte possa insegnare e far riflettere e nella quale viene mostrata la propria visione. Tantissimi gli acquerelli ritrovati, miniature di scorci e nature morte che ci mostrano un Padula attento al dettaglio, amante delle piccolezze e di quella storia nascosta tra le pietre e nei vicoli di paese che, silenziosamente, proteggono il passato. Quel passato a cui l’artista sembra aggrapparsi per viverlo come un nuovo presente a cui dedicare la sua meraviglia e la sua straordinaria capacità inventiva ed immaginaria. I motivi prediletti sono, dunque, le vie, le case, le piccole finestre, quei ciottoli che compongono stradine e vicoli pieni di un passato vicino o lontano: piccole cose a cui Padula prestava tutta la sua attenzione. È come se fosse riuscito a trovare ciò che, apparentemente, sembrava insignificante, quel valore e quella bellezza che sembravano essere nascoste dietro la loro estrema semplicità. È una visione del profondo quella che ci ha regalato questo artista, la quale è possibile cogliere osservando i suoi lavori. Pennellate dense e corpose che scivolano via veloci ed agili, portando alla fusione fra spazio ed oggetto; un chiaroscuro derivato dall’uso di ombre colorate; è un atteggiamento verista, un occhio che “fotografa” la realtà, che non vuole migliorare ma solamente mostrare nel bene e nel male senza artifici. La bellezza è proprio nell’imperfezione che crea quell’unicità tanto cara agli artisti. Ma quella che ci viene mostrata è anche una natura che sembra meditare su sé stessa, un fermo tempo che sembra porre un freno all’inesorabile passare dei minuti, un blocco temporale che permette di assaporare con gli occhi ciò che la natura regala. Le nature morte, realizzate con l’acquerello e l’incisione invece, sembrano riportare alla mente ricordi ed immagini di morandiana memoria: cibo e oggetti comuni danno l’idea di avere vita propria, di avere una loro collocazione nello spazio circostante. Oggetti qualunque a cui viene restituita una voce ed un colore, la capacità di dialogare silenziosamente con l’osservatore. Se Morandi, però, riscopre i valori plastici degli oggetti e li inserisce nell’immobilità di uno spazio quasi metafisico, Padula, al contrario, cerca la parte comunicante, ovvero quella componente capace di comunicare un messaggio attraverso la superficie, grazie anche ad un cromatismo guizzante e dinamico. Per concludere, posso dire che Nicola Padula ha lasciato in eredità un’autobiografia intima e profonda, ha voluto scavare dentro di sé alla ricerca della sua verità “dipingendo” capitoli su capitoli che si uniscono in un racconto visivo totale ed appagante, regalando l’immagine di un artista completo, serio, severo ma capace di disdegnare l’aspetto meramente economico per un’arte figlia della sua passione e strumento attraverso il quale potersi mostrare senza remore in tutta la sua verità. È un ritorno alla terra quello di Padula, ovvero il ripartire dalla semplicità e dalla creatività umana, senza finire in opere spettacolarizzate, prodotti di un’epoca dove il kistch diventa sempre più onnipresente. Padula insegna che il bello è ovunque, l’importante è saperlo trovare ma soprattutto, è importante saper guardare oltre, e questo maestro ci ha dimostrato che si può raggiungere l’eccellenza attraverso lo studio che lo ha reso capace di padroneggiare egregiamente tecniche differenti, senza mai perdere quella qualità che è stata la sua costante sino alla fine.

PER UNA POETICA DEL FRAMMENTO | Di Massimo Pasqualone | Critico d’arte
Si muove tra scultura, pittura e grafica lo straordinario percorso zetetico di Nicola Padula, compianto artista molisano, che, come testimoniano le opere presentate in catalogo e nella mostra isernina, vive il tempo della bellezza attraverso un deciso ascolto del silenzio, il silenzio delle figure femminili, il silenzio dei paesaggi, il silenzio di quella vita che pensi sempre a portata di mano e che invece, nel qui ed ora dell’incedere dei giorni e, nonostante i nonostante, fluisce come un fiume inevitabile, per dirla con l’amico poeta Franco Pasquale. Il paesaggio urbano viene identificato con uno sguardo a dir poco impressionistico, con quella capacità che Padula ha di cogliere l’attimo ed il frammento, quando le ore della giornata si fanno pesanti e quando gli attimi ed i secondi sembrano frantumare ogni velleità di infinito. Arriva allora la simbologia di talune nature, poco morte e decisamente presenti al dettato ermeneutico, di soggetti floreali quanto mai simboli della vita, caduca, a volte recisa, ma sempre meritevole di essere vissuta, con quella capacità che solo l’artista vero ha di dire la verità. Padula cerca questa verità nei vicoli dei paesi, enigmatici emblemi dei vicoli dell’anima, dove l’artista cerca e difficilmente trova se stesso, per quel consueto estraniarsi per ritrovarsi che fa, come detto, del silenzio il luogo del pensiero e dell’anima artistica. Deciso osservatore delle figure femminili, nella produzione plastica, Padula svela la complessità del suo ricercare, con la donna simbolo sovrabbondate di bellezza, vita, persino morte, verità, anima, che si interseca con la possibilità di indagare, la certezza di scavare il di più di sorrisi e di abbracci che gli inquieti momenti dell’oggi ci danno. Ed è qui che Padula mostra tutta la sua competenza, la sua attenzione alla storia dell’arte ed alla storia in genere, con la capacità che solo un vero entronauta ha di assorbire il fluire del tempo con le immagini e con le previsioni, per un tempo senza tempo ed uno spazio senza spazio. Osservando talune visioni, ci sovviene Sul tempo, uno splendido testo di Kahlil Gibran: E un astronomo disse: Maestro Parlaci del Tempo. E lui rispose: Vorreste misurare il tempo, l’incommensurabile e l’immenso. Vorreste regolare il vostro comportamento e dirigere il corso del vostro spirito secondo le ore e le stagioni. Del tempo vorreste fare un fiume per sostare presso la sua riva e vederlo fluire. Ma l’eterno che è in voi sa che la vita è senza tempo e sa che l’oggi non è che il ricordo di ieri, e il domani il sogno di oggi. E ciò che in voi è canto e contemplazione dimora quieto entro i confini di quel primo attimo in cui le stelle furono disseminate nello spazio. Chi di voi non sente che la sua forza d’amore è sconfinata? E chi non sente che questo autentico amore, benché sconfinato, è racchiuso nel centro del proprio essere, e non passa da pensiero d’amore a pensiero d’amore, né da atto d’amore ad atto d’amore? E non è forse il tempo, così come l’amore, indiviso e immoto? Ma se col pensiero volete misurare il tempo in stagioni, fate che ogni stagione racchiuda tutte le altre, E che il presente abbracci il passato con il ricordo, e il futuro con l’attesa. L’arte di Padula su questo ragiona, pensa che l’eternità sia il vero obiettivo di ogni figurazione, sia essa antica o post-moderna, perché, direbbe Oscar Wilde, “La Bellezza è l’unica cosa contro cui la forza del tempo sia vana. Ciò che è bello è una gioia per tutte le stagioni, ed è un possesso per tutta l’eternità.”

TERRA COME ANIMA SEGRETA E L’IO SOSPESO IN UN VUOTO IMMANE | di Linda Berardi | Critico d’arte
Plasmare, manipolare, parlare con la materia e ascoltarla. Mescolare impasti terrosi e pezzi di vita, costruire racconti, un unico filo che cuce la forza dell’uomo all’arte. Ho osservato a lungo le opere di Padula, tutto appare immerso in una malinconia, sottile e scabra. La casta nudità delle figure rimandano all’essenzialità delle sculture primitive e conferiscono la solennità di un rito. Lo stile è asciutto e la resa plastica è sintetica; il passato diventa per l’artista un repertorio illimitato al quale attingere in quanto la bellezza è fatta di ricordi. Il suo non finito è l’umanità ridotta all’essenziale; gli esseri umani sono sagome in uno spazio indefinito. Terra… aria… sabbia per addensare zone i cui contorni si combinano con l’atto della creazione. Elevarsi e abbattersi in un cosmo rarefatto, cercare un equilibrio tra bellezza e tensione lega tra loro oggetti e situazioni. Immagini che rimandano a un sistema di strutture compositive da decifrare. Visioni apparentemente normali ma che nascondono ambiguità, come se la parte nascosta dei nostri pensieri si trasformasse in intimità. La vita e l’arte hanno lo stesso volto, intimo e universale. I suoi schizzi fanno riflettere sul mondo dell’inconscio ove vediamo noi stessi soggetti e protagonisti. L’inchiostro che scorre su attimi di vita, emozioni, viaggi, linee leggere commuovono il cuore. Padula ha riprodotto paesaggi con una dolce malinconia decadente. Case, ricordi, binomio perfetto tra terra e uomo in un unico slancio esistenziale. Macchie, segni serigrafici, nell’imperfezione di un volto; la sua ricerca pittorica sembra spezzarsi, annullarsi. È un percorso intriso di gesto e colore che nel tempo trova una sua sintesi e un suo concetto, un accordo tra cromie e campiture piatte, un equilibrio di composizione e simbolo. Scorrere le sue opere è stato per me come scorgere riflessioni pure; si può leggere l’anima dell’artista che ha aperto le porte al futuro, passaggio non semplice per chi ha vissuto l’intimità del realismo.

IL RITORNO ALLA TERRA DI NICOLA P. | di Fabio Luigi Mastropietro |scrittore e critico letterario.
Le figure, negli atteggiamenti sempre immerse e pensose, quasi sempre isolate, rappresentano la realtà nella quale l’uomo di oggi vive la propria esistenza. Queste figure, apparentemente indifferenti e solitarie, sono la testimonianza che il mondo è sempre più ostile e che l’unica realtà è quella di ritrovarsi meno con gli altri e sempre più soli con noi stessi.
Nicola P.

In questo mondo divorato dal terrore globale, l’arte visiva di Nicola P., come quella di pochi altri, è un balsamo salvifico per la coscienza dell’uomo martoriata dalla guerra perpetua per il profitto. Le sue opere incarnano una cosmogonia delle radici che parla direttamente al cuore dell’uomo. Evocano una escatologia del ritorno alla madre terra che si innalza al centro dell’immaginario della specie umana in via di estinzione. Il ritrovamento poi, da parte della moglie Adele M., in occasione della preparazione della retrospettiva del 6 dicembre 2015, tra le tante carte e appunti custoditi nello studio, di una cartellina azzurra contenente documenti fino ad ora sconosciuti, getta una nuova luce sulla vita e le opere dell’artista prematuramente scomparso nel 2005. La cartellina contiene alcuni fogli sparsi con appunti numerati ma non datati, probabilmente risalenti ai primi anni duemila, e la pagina di un libro annotata a margine. I frammenti, di contenuto essenzialmente memorialistico e analitico, sono scritti a macchina, qualcuno è stato corretto a mano. Nel fascicolatore sono presenti anche una scheda dell’Unità Operativa di Reumatologia e Immunologia clinica della Humanitas University di Milano, con una nota in chiusura del medico, e un cartoncino 20 x 30 sul quale è dipinto un autoritratto realizzato con una tecnica mista di olio, bitume e cenere. Il dipinto è unico nel suo genere, anche per un artista squisitamente poligrafo che ha attraversato molti linguaggi visivi e sperimentato le tecniche espressive più diverse nella scultura come nella pittura. L’effetto per chi osserva il ritratto è quello di una vampa di luce che illumini per una frazione di secondo ciò che non può essere illuminato o forse non è mai stato illuminato. Ma solo distogliendo gli occhi da questa fiamma obliqua, affiorano alla coscienza di chi ha guardato, come una immagine a stento impressa sulla retina, i contorni di un volto umano immerso nel fogliame del sottobosco. Un incarnato panico fuso con la vegetazione più fonda. Il profilo pulsante di una sindone di fango e di luce. Un’orma umana impressa nel bolo della terra. Il titolo del lavoro senza data è Il mio ritorno alla terra. In basso a destra solo le iniziali NP, segnate con il bitume. Si riportano di seguito la pagina annotata del libro (numerata con lo 0), la scheda clinica e infine i frammenti, nell’ordine di numerazione dell’autore.

0. L’arte contemporanea soffre il complesso della quarta parete. È un’arte esibizionista, le piace farsi guardare dal mondo attraverso il muro trasparente che ha edificato tra artista e destinatario dell’opera d’arte. Ma così persegue l’inevitabile risultato di dimenticare il mondo. Di agire come se il mondo, la natura, l’origine della realtà non esistessero. Come se l’opera avesse il solo scopo di essere venduta al migliore offerente, di essere collocata a futura memoria in qualche museo polveroso, magari di diventare l’arredo urbano di qualche piazza, buono per raccogliere le deiezioni dei piccioni. Gli artisti poi saltano come indemoniati da un vernissage all’altro, parlano quasi sempre tra loro (se parlano), comunicano a loro stessi e ai loro sodali sempre la stessa litania promozionale delle presentazioni e delle mostre, in un circolo vizioso infinito. E la gente, le persone, dove sono? Dove sono la loro storia e la loro identità che l’arte deve incarnare e mantenere in vita? Il legame inscindibile tra arte e umanità, dov’è? Forse l’artista contemporaneo farebbe meglio a fare arte come il protagonista di questo racconto. Almeno l’operazione avrebbe un senso.

Da quando ha vissuto nel bosco di Lavarone, ha preso a raccogliere cortecce d’albero di tutti i tipi per tracciare l’ideogramma perfetto in stile semicorsivo Sosho. Ogni sera nel bosco stempera in un cucchiaio di acqua piovana un pizzico di polvere scarlatta di henna e la lascia riposare per tutta la notte. All’indomani raccoglie una nuova corteccia sulla quale dipinge un nuovo kanji, servendosi del suo fude a setole corte intriso di pasta di henna. Dopo aver dipinto più di trecento ideogrammi diversi su altrettante cortecce, ridotto allo stremo anche a causa della dieta insettivora, Raniero dispera di riuscire mai nel suo intento di rappresentare tutta la vita del mondo con un solo volo della mano, in un solo segno d’acqua, la sola bellezza senza sbavature. Una mattina decide di cercare l’albero più alto del bosco e di lanciarsi nel vuoto dal ramo più alto. Così, al bordo di una radura vicina ad un piccolo lago, quella stessa mattina di aprile incontra l’albero più grande che abbia mai visto o anche solo sognato. Un maestoso esemplare di Abies Alba, alto più di sessanta metri e con una circonferenza che supera i cinque metri. La corteccia grigio perlacea dell’abete bianco è molto sottile. Ha la consistenza quasi diafana della pelle di una geisha imperiale. Raniero trascorre due giorni interi a studiare e carezzare le venature vellutate dell’abete. Alla fine scopre sulla pelle dell’albero qualcosa, come una vena di sole appena più gonfia. Con le dita formicolanti ne segue il corso sinuoso, con i polpastrelli ciechi ne assaggia le divine spire. D’improvviso realizza che l’ideogramma perfetto è già stato scritto. [estratto dal libro Dodici casi più uno di Denis Brandani]

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